Immigrati per… professione
Il 18 Dicembre si celebra la Giornata internazionale dei migranti. Quest’anno, in particolar modo, spiega in una nota ufficiale il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon "Abbiamo visto continuare gli effetti devastanti dei conflitti armati sulle popolazioni civili, morte, distruzione e trasferimenti forzati. Siamo stati testimoni dell`inaccettabile perdita di migliaia di vite nel Mediterraneo e altrove. E, per aggiungere insulto all`ingiuria, siamo stati testimoni della crescita di movimenti populisti che cercano di isolare ed espellere migranti e profughi e di incolparli di vari mali della società".
Come se non bastasse “si continua a morire nel mare Mediterraneo: dall`inizio del 2016 sono quasi 5 mila le persone che hanno perso la vita nei viaggi sui barconi, il numero più alto mai registrato in un anno". A tal proposito, si legge nella dichiarazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: "L'Italia ha sempre mantenuto sul tema migratorio una posizione in linea con i valori fondanti del progetto di integrazione europea e continua a mettere in campo ogni sforzo per far fronte a un fenomeno che anche nel 2016 ha, purtroppo, causato troppe vittime. Ogni perdita umana è una ferita per l'umanità intera e a questo dobbiamo rivolgere il nostro pensiero, costruendo reti di solidarietà rispettose dei diritti delle persone migranti".
La data del 18 dicembre fu scelta per richiamare la Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Diritti dei Lavoratori Migranti e dei Membri delle Loro Famiglie, adottata il 18 dicembre del 1990 dall'Assemblea delle Nazioni Unite.
Sono passati più di vent'anni e nessuno Stato membro dell'Unione Europea ha firmato o ratificato questa Convenzione che rappresenta un passo decisivo per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori migranti a livello internazionale.
Dunque, soffermandoci sulla parola “migrante”, ci renderemmo conto che dietro ad essa si celano persone, uomini e donne con una storia più o meno felice, lavoratori, studenti, giovani, famiglie. E che, forse, un giorno anche noi potremmo trovarci nella stessa condizione, essere additati come stranieri o essere considerati una minaccia.
A volte, essere migranti, immigrati, emigrati è solo questione di punti di vista. Per questo ve ne proponiamo due, diversissimi uno dall’altro. Da una parte Ashin e dall’altra Chiara e Alessandro.
Il suono delle lamiere ad Accra
Immaginatevi delle vere e proprie colline, una a fianco dell’altra, ma interamente fatte di tv, PC, radio, piccoli elettrodomestici più o meno fatti a pezzi o sbriciolati. A terra, fango misto a frammenti di plastica, metallo, vetro e chip. Alzando lo sguardo, intorno a voi i cavi dell’alta tensione. Uno spettacolo degno, nel nostro immaginario occidentale, forse solo di un film di fantascienza. Questo posto è la discarica di Accra, intorno a cui vivono tantissime persone e intorno a cui ruotano intere economie familiari.
Ashin è uno di loro; ha 22 anni e le sue giornate le passa a rovistare tonnellate di rifiuti. Uno dei pochi lavori “sicuri” per i ragazzi del nord del Ghana è proprio questo: lo scrap dealer. Riciclano i rifiuti per rivenderli. Un mestiere che, nella maggior parte dei casi, consiste nel riparare vecchi computer, radio, elettrodomestici e materiale elettrico di ogni tipo.
“Lavoro per mandare i soldi alla mia famiglia: mia madre e mio padre sono ancora vivi, quindi li devo aiutare. Non importa dove, se qui, al Nord o in un altro paese: per me ora l'unica cosa importante è avere un lavoro. Se ne avessi l'opportunità, andrei ovunque.”
Chiara ed Alessandro: “mio figlio dice di chiamarsi Ashu”
Chiara, Alessandro e i loro due figli Vincent e Nicholas sono volontari VIS da diversi anni. Da qualche mese l’intera famiglia si è trasferita, per lavoro, in Etiopia. Lavoro che li ha portati in precedenza anche in Medio Oriente, RD Congo e Libano. Dalla Beirut del 2007 post-guerra dove si sono conosciuti, negli anni hanno vissuto insieme esperienze in contesti completamente diversi.
Una vita fatta di incontri, di percorsi diversi e di un continuo processo di integrazione in “terra straniera”. A volte difficoltosa come a Goma, dove hanno lavorato per due anni e dove venivano spesso appellati con il termine “muzungu”, uomo straniero; “è brutto sentirsi discriminati sulla bae del colore della pelle: abbiamo vissuto ciò che spesso sperimentano gli immigrati in Italia” raccontano. “E poi c’è il nostro primo figlio che dice di chiamarsi Ashu, il nomignolo che gli venne dato dalla tata etiope quando aveva soli due mesi”.
E se domani, stando al Rapporto “Immigrazione e Imprenditoria” in cui viene registrato un incremento dell’imprenditoria a guida di immigrati, fossero gli immigrati di oggi a darci lavoro?